I wet market - Un rischio globale per la salute
Stando alle attuali informazioni, il coronavirus è stato contratto per la prima volta dall'uomo in un mercato di animali selvatici in Cina. Doris Calegari, ex responsabile della protezione delle specie presso il WWF Svizzera, spiega perché questi mercati rappresentano un rischio globale per la salute e perché vanno chiusi ora.
«La stretta coesistenza tra l’uomo e gli animali di ogni specie, stressati, sfiniti e talvolta malati, offre le condizioni ideali per il proliferare di virus che spesso sono altamente mutabili.»
Il coronavirus, responsabile della grave infezione COVID-19, è stato verosimilmente trasmesso per la prima volta agli esseri umani nel mercato di commercio all'ingrosso di Huanan, a Wuhan. Ma chiediamoci anzitutto: che aspetto ha un mercato alimentare all’ingrosso in Asia?
Molti di questi mercati sono meglio conosciuti come wet market: qui si commercia frutta, verdura, pesce, frutti di mare, carne da allevamento o preveniente da animali selvatici. Vi si trovano anche animali vivi o macellati poco prima che le loro carni siano messe in vendita. Animali vivi e morti delle specie più disparate come ad esempio maiali, polli, pipistrelli, folidoti (pangolini), zibetti e cani sono qui esposti e costretti in spazi angusti. Molti avventori amano acquistare carne di animali appena macellati direttamente al mercato o portare a casa la creatura ancora viva per poi macellarla personalmente. Tra i banchi, le condizioni igieniche lasciano ovviamente molto a desiderare. I mercati in cui vengono venduti (legalmente o illegalmente) gli animali selvatici sono presenti sia nelle aeree urbane che in quelle rurali. In città, la carne di animali selvatici è spesso considerata una vera prelibatezza e viene venduta a caro prezzo.
Perché i mercati di animali selvatici rappresentano un rischio reale per la nostra salute?
La stretta coesistenza tra l’uomo e gli animali di ogni specie, stressati, sfiniti e talvolta malati, offre le condizioni ideali per il proliferare di virus che spesso sono altamente mutabili. La possibilità di contagio tra gli animali e da animale a uomo è estremamente elevata. Le condizioni spesso poco igieniche favoriscono ulteriormente le trasmissioni. Non di rado, gli animali selvatici vengono catturati in natura e messi in vendita a volte legalmente, altre illegalmente, senza essere sottoposti a controlli veterinari.
Il COVID-19 è stata la prima patologia a diffondersi con queste modalità?
No, la diffusione degli agenti patogeni attraverso il contagio da animale a uomo è un fatto già tristemente noto: si pensi alla SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome), una malattia infettiva comparsa per la prima volta in Cina nel 2002, o alla MERS (Middle East Respiratory Syndrome), scoppiata in Medio Oriente nel 2012. Apparentemente, a capo della catena di trasmissione di tutte e tre le patologie vi sono i pipistrelli. I virus si diffondono a macchia d’olio fino a contagiare l’uomo passando per degli ospiti intermedi: zibetti, dromedari e, come nell’ultimo caso, pangolini. L'Organizzazione mondiale della sanità registra oltre 200 zoonosi (malattie trasmissibili dagli animali all'uomo). Alcune sono patologie a noi ben note: peste, ebola, malaria, dengue o la borreliosi di Lyme, che può essere trasmessa dai morsi di zecca. Tuttavia, a differenza di queste malattie, ciò che rende unico il coronavirus è la sua rapida diffusione a livello mondiale.
Il 93 per cento degli intervistati di cinque paesi asiatici sarebbe d'accordo con le misure adottate dai loro governi per chiudere i mercati della fauna selvatica non regolamentati e illegali.
Quali misure hanno adottato i governi in Cina e nel Sud-est asiatico?
All’inizio di aprile, la Cina ha adottato alcuni provvedimenti come il divieto, fino a nuovo ordine, di vendita e di consumo di animali selvatici autoctoni vivi come lo zibetto o il pangolino. Tuttavia, il divieto non si applica allo sfruttamento a scopo terapeutico degli animali selvatici o all'allevamento dei cosiddetti animali domestici. I singoli wet market con animali selvatici o prodotti di origine animale sono stati temporaneamente chiusi. La Cina sta anche riesaminando l'elenco degli animali che possono essere cacciati e commercializzati. Il Vietnam ha invece comunicato l’intenzione di intensificare la battaglia contro il commercio illegale di animali selvatici e promulgherà una legislazione adeguata. La crisi del coronavirus potrebbe quindi trasformarsi in un'opportunità di salvezza per molti animali selvatici che vengono abitualmente cacciati, mangiati o utilizzati per la realizzazione di medicinali in Cina e nel Sud-est asiatico. Anche se non tutte le persone osserveranno il conseguente divieto a livello globale, l'illegalità scoraggerà la maggioranza della popolazione dal consumare questi prodotti e il numero effettivo di animali selvatici commercializzati potrebbe finalmente diminuire drasticamente.
Cosa chiede il WWF?
Dopo una crisi come quella del Covid-19, non è in alcun modo ammissibile continuare su questa linea. È evidente che al momento l'obiettivo principale è fornire assistenza medica alla popolazione colpita e combattere l'ulteriore diffusione del virus. Tuttavia, a medio termine, sarà fondamentale che la salute dell'uomo, degli animali selvatici e dell'ambiente siano considerati alla stessa stregua: solo così è possibile ridurre i rischi di future zoonosi. I governi di tutto il mondo hanno il dovere di intensificare i controlli sul commercio della fauna e della carne selvatica. I mercati di fauna selvatica non regolamentati o non adeguatamente controllati devono essere chiusi e, in linea di principio, gli standard igienici dei wet market devono essere innalzati. È necessario rivedere le leggi esistenti affinché non presentino falle e promulgarne di nuove. Per raggiungere questo obiettivo, i paesi industrializzati dovranno sostenere ulteriormente i paesi in via di sviluppo e quelli emergenti, ma ciò darà i suoi frutti solo a lungo termine, considerati i problemi economici che la crisi del coronavirus porterà con sé.
Chiudere i mercati di animali selvatici sembra un traguardo irraggiungibile: quali sono le ostilità? Quale la reazione delle popolazioni locali?
A dire il vero, un sondaggio online condotto da GlobeScan in Vietnam, Hong Kong, Myanmar, Thailandia e Giappone nel marzo 2020, ha evidenziato che il 93% degli intervistati è a favore di eventuali misure dei rispettivi governi per chiudere i mercati di animali selvatici non regolamentati e illegali. I governi dovrebbero dunque approfittare di questa consapevolezza e agire nell'interesse della popolazione e della salute globale.
«La distruzione degli habitat costringe le specie che per natura vivono in mondi completamente diversi ad avvicinarsi.»
La chiusura dei mercati di fauna selvatica ad alto rischio è la chiave di risoluzione del problema?
No, la chiusura dei mercati di animali selvatici è solo una parte della soluzione, anche se significativa. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’influenza suina è comparsa per la prima volta negli Stati Uniti nel 2009 mentre, nel 1996, nel Regno Unito è stata diagnosticata una nuova forma della malattia di Creutzfeldt-Jakob, causata dal consumo di carne bovina di animali affetti da BSE: anche il bestiame d’allevamento può trasmettere malattie! La crisi del coronavirus rappresenta una valida opportunità per modificare radicalmente le nostre abitudini alimentari e i meccanismi degli allevamenti.
Proteggere la biodiversità e porre fine alla distruzione degli habitat sono altri elementi chiave. Ma qual è la relazione con le pandemie globali?
La distruzione degli habitat costringe le specie che per natura vivono in mondi completamente diversi ad avvicinarsi. Come, ad esempio, animali selvatici di specie differenti. Si generano così nuovi contatti tra animali da allevamento, fauna selvatica e uomo. Fenomeni come questo facilitano la comparsa di nuovi agenti patogeni e la diffusione di malattie umane. Il rapporto in lingua inglese del WWF «The loss of nature and rise of pandemics» approfondisce questi legami e ne fornisce esempi concreti. Ad esempio, un effetto diretto del calo della popolazione di caprioli in Svezia è stato l’aumento della zecca, un parassita che causa encefalite (meningite) e che colpisce sistematicamente un numero sempre maggiore di arvicole. Gli esemplari di questo roditore sono assai più numerosi degli esemplari di capriolo e ben più vicini all’uomo. Va da sé che il rischio di morso da zecca e di contrarre le malattie che ne conseguono è aumentato. Un altro esempio mostra come in Malawi, la pesca eccessiva si sia trasformata anche in un rischio per la salute. La schistosomiasi è una parassitosi proveniente dai molluschi gasteropodi che vivono nelle acque continentali calde. I pesci si nutrono di gasteropodi, tuttavia il drastico calo di fauna ittica ha comportato una repentina proliferazione di questi molluschi e di conseguenza anche degli agenti patogeni. Ogni anno circa 200 milioni di persone in tutto il mondo contraggono la schistosomiasi e oltre 10 000 ne muoiono.
Ma l’uomo può trasmettere il coronavirus agli animali?
Per il nostro lavoro a tutela della natura, il problema si pone soprattutto in relazione alle visite di osservazione dei gorilla, attualmente sospese. Le grandi scimmie sono geneticamente molto simili a noi umani ed è per questo che la trasmissione di malattie dall’uomo al gorilla è un problema tangibile: si tratta di patologie per noi innocue, come il raffreddore o l’influenza. Il WWF supporta da anni i rispettivi parchi nell'implementazione di protocolli igienici con elevati standard di sicurezza. Non è ancora possibile determinare se il gorilla o altre specie in via di estinzione siano vulnerabili al virus e quanto sia per loro pericoloso. I media hanno diffuso la notizia di un caso di positività al coronavirus di una tigre dello zoo del Bronx. Sono inoltre noti anche altri due casi di contagio animale: due gatti domestici, uno in Belgio e uno a Hong Kong.
Qual è l’impatto della crisi del coronavirus sul lavoro di conservazione della natura?
Le notizie provenienti dal Sudafrica non sono affatto rassicuranti: alcuni contadini denunciano un drastico aumento dei fenomeni di bracconaggio a danno dei rinoceronti. I bracconieri di professione approfittano del «lockdown» e delle restrizioni sulle uscite in molti paesi. Molti guardiacaccia non sono infatti più autorizzati a pattugliare. Inoltre al momento vi è una totale assenza di turismo, fenomeno che prima del coronavirus fungeva da deterrente per i bracconieri: non erano infatti liberi di muoversi indisturbati, soprattutto per paura delle segnalazioni da parte dei turisti ai guardiacaccia o alla polizia. Complessivamente, si osserva un aumento del bracconaggio in diversi paesi. Moltissime persone osservano impotenti il crollo del proprio reddito e la perdita del lavoro, sono così costrette a cacciare per sfamare le proprie famiglie e generare entrate economiche dal commercio delle carni o di altri prodotti provenienti dagli animali selvatici. Questo è un comportamento comprensibile purché, per non causare danni irreparabili, sia limitato nel tempo. È tuttavia fondamentale impedire il bracconaggio professionale, affinché la fauna selvatica non subisca una minaccia ancora maggiore o che alcune popolazioni animali siano addirittura sterminate a livello locale.
Anche la la tutela dei mari è interessata?
La crisi del coronavirus si ripercuote anche sul controllo internazionale delle attività della pesca, in mare e nei porti. A causa dei seppur legittimi criteri di sicurezza, molte attività di controllo sono state ridotte o del tutto sospese. Sebbene attualmente i piccoli pescherecci non possano lasciare i porti, le grandi navi da pesca sono ora libere di pescare in mare aperto in modo incontrollato. Gli ispettori ufficiali della pesca, il cui compito è censire le specie e la quantità di pesce e assicurarsi che non vengano applicati metodi di pesca illegali, non sono attualmente in servizio. Ciò comporta il proliferare delle attività illegali. Il WWF chiede pertanto di intensificare le misure esistenti di controllo elettronico per localizzare le navi, al fine di ottenere un quadro esauriente delle attività in mare. C'è motivo di temere che, dopo la crisi, in particolare i paesi poveri cercheranno ancora più intensamente di attrarre investimenti internazionali nel proprio paese e forniranno rovinose concessioni per la produzione di petrolio e gas o per l'estrazione di altre materie prime in aree di fatto protette.
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